“Come in una favola. Lavorare con l’analisi immaginativa per recuperare il magico mondo che è in noi” Mondadori – Oscar Saggi Milano.
Biancaneve e la paura di amare
“ Non guardarti indietro con rabbia , né avanti con paura , ma attorno con consapevolezza”
J.Thurber*
Tra i casi che mi sono trovata ad affrontare, quello di Monica è sicuramente uno tra i più complessi e sofferti , oltre che tra i più coinvolgenti sotto il profilo relazionale.
Nei due anni di incontri settimanali, ci è capitato più volte di confrontarci con il desiderio di interrompere le sedute e di dover fare i conti con una reciproca e umiliante rabbia e frustrazione che dava la sensazione di ritrovarci sempre al punto di partenza: il bisogno di scappare.
Monica mi telefonò in studio per fissare un appuntamento in un nuvoloso pomeriggio di cinque anni fa.
Mi ero persa ad ammirare i colori rossastri delle foglie di un castagno che si affacciava alla mia finestra in netto contrasto con il grigio cielo milanese del periodo autunnale e stavo lasciando spazio al mio desiderio di vacanza, fantasticando su come sarebbe stato più allegro vivere in una città più solare ,quando il suono del telefono mi riportò alla realtà.
La voce della signora era educata, esigente, formale.
“ Vorrei prendere un appuntamento con lei, ho già avuto qualche incontro con un suo collega, ma non mi sono trovata bene. Un uomo sulla cinquantina….. sgradevole. Non mi capiva…parlava con me e guardava altrove…spero che con lei vada meglio…che funzioni…Lei non è giovanissima, vero?”
Trattenni un certo disappunto nell’apprendere il cambio di terapeuta e soffocai il desiderio di soffermarmi sugli spunti che la sua conversazione mi offriva, ma non risposi riproponendomi di riprendere e approfondire gli argomenti in un secondo tempo, incontrandola.
Dopo qualche minuto di conversazione, speso interamente nel tentativo di fissare un incontro,
quando ero ormai sul punto di suggerirle di richiamarmi in un momento della sua vita nel quale, tra i vari impegni, avesse anche il desiderio di inserire quello di incontrarci, interruppe la telefonata con delle scuse inaspettate e accettò di venirmi a trovare inserendosi in una delle mie prime proposte di orario.
Che non fossi giovanissima, alla soglia dei quarant’anni, era un dato di fatto, ma che in Monica vi fosse la preoccupazione di non incontrare una terapeuta troppo giovane, affinchè “ potesse funzionare”, mi incuriosiva .
Solo se non fossi stata giovanissima mi avrebbe accettata, ovvero la relazione si sarebbe potuta attivare ammesso che non entrassero in gioco parti troppo giovani con le quali avrebbe rifiutato confrontarsi.
Non l’avevo mai incontrata, non sapevo chi fosse, eppure mi aveva comunicato già molto di sé e soprattutto di quanto si aspettasse da me e dalla terapia: avrei dovuto essere migliore del mio collega, prestarle attenzione assolvendo all’esigenza di guardarla, capirla e se poi avessi accumulato una certa esperienza e non fossi stata troppo giovane avrei avuto qualche speranza in più sul buon esito degli incontri.
In più aveva messo in atto una modalità di comunicazione, che non potevo sottovalutare, a metà strada tra il manipolatorio-direttivo ( ogni giorno e orario disponibili venivano bocciati con delle controproposte poi annullate..) e il collaborativo- dipendente ( le scuse e l’accettazione dell’orario) che sottolineava una forte ambivalenza relazionale.
Sarà stata la giornata piovigginosa o quel cielo sempre più scuro, ma dentro di me sentivo aumentare il disagio e la voglia di partire .
Quando la vidi entrare indossava un paio di pantaloni sportivi e una giacca da uomo.
Magra, minuta, non tanto alta, dimostrava meno dei trentacinque anni dichiarati.
I capelli biondi, tagliati a caschetto, la totale assenza di trucco, gli occhiali privi di montatura che le mettevano in evidenza due grandi occhi azzurri, ricordavano più uno studente all’ultimo anno di università che la signora determinata e precisa con la quale avevo avuto l’incontro telefonico.
Insegnante di lettere in una scuola serale, sposata da una decina di anni con un collega più giovane di lei, si era rivolta allo studio “ perché confusa” in un momento di profondo smarrimento.
“ Mi sono persa” comunica più alterata che spaventata posizionandosi in piedi di fronte a me ed ignorando completamente il mio invito ad accomodarsi.
“Preferirei stare un po’ in piedi.. sono molto nervosa…” diceva mentre si guardava attorno e si avvicinava alla finestra e abbassava l’ultima parte della tenda aggiungendo “ non mi piace essere vista”.
Agitata e intimorita, si muoveva nella stanza camminando avanti e indietro spostando lo sguardo su ogni parte dello studio, ma dando la sensazione di non guardare nulla di ciò che vedeva, come se stesse cercando qualcosa e, nel temporeggiare per trovare le parole, trasmetteva contemporaneamente il bisogno di procedere ed il desiderio di nascondersi.
“ Non so da dove iniziare… mi sento confusa..” ripeteva quasi nel tentativo di mettere in ordine ciò che sentiva per riuscire a verbalizzarlo.
Quando, vincendo la tensione accumulata, si lasciò finalmente sprofondare in poltrona quasi arrendendosi alla sofferenza che si portava dentro e si permise di parlarne, comunicò un forte dolore all’articolazione della gamba destra : dolore che le era apparso qualche mese prima poche sere dopo aver riferito al marito la propria decisione.
Monica voleva separarsi: voleva procedere nel cammino della propria vita da sola, in un modo da lei definito autonomo e libero, ma contemporaneamente una parte di lei la bloccava proprio là, nell’articolazione della gamba, organo primario della deambulazione.
Anche il suo corpo, nel dolore, le stava comunicando un conflitto, un disaccordo tra un desiderio mentale( la voglia di separarsi) ed una paura inconscia dalla quale si stava proteggendo, indirizzando e trasformando tutte difese nel dolore della somatizzazione.
Non mi sembrava particolarmente convinta né determinata ,forse più rassegnata.
Si lamentava del marito per un dialogo che negli anni si era assottigliato sempre più fino a rendersi invisibile, per un interesse che non riusciva più a veder brillare nel suo sguardo, per non sentirsi desiderata e cercata, come nei primi anni , accusandolo di “ girarsi dall’altra parte” ogni volta che desiderasse affrontare l’argomento della loro relazione.
Tutti questi atteggiamenti l’avevano spinta a fantasticare sull’idea che potesse avere un’altra donna, anche se poi la scartava non ritenendolo capace : “ non è il tipo” asseriva decisa.
La scarsa stima che nutriva nei confronti di quell’uomo, traspariva spesso nei suoi discorsi e affermazioni come: “ è inutile affrontare con lui certi argomenti ..non capirebbe…”, oppure: “ è razionale, non riesce ad andare oltre, a comprendere il mio malessere…lo sento ostile…” Queste dichiarazioni venivano ripetute con frequenza sempre accompagnate da atteggiamenti di chiusura ( incrociava le gambe o si metteva a braccia conserte) o di difesa ( stingeva i pugni o si irrigidiva serrando le mandibole) che esprimevano un’altra volta una profonda ambivalenza tra il desiderio di essere soddisfatta nei propri bisogni ed un desiderio di scappare da una situazione che, a questo punto, viveva come immutabile.
Non distoglieva mai lo sguardo dal mio viso: era attenta all’eventuale modificarsi dell’espressione e traeva da questa rinforzo e sicurezza nell’esprimersi o , al contrario rallentava come per richiamare la mia attenzione.
Alternava una comunicazione abbondante e nervosa rivolta prevalentemente a spigarmi come fossero i fatti, con un atteggiamento sofferente orientato alla richiesta di soluzioni che le permettessero di uscire dalla confusione nella quale si viveva, ma sempre evitando di lasciarsi coinvolgere emotivamente.
“Non pretenda anche lei che accetti di lavorare sdraiata su quel lettino o che mi ricordi i sogni… sogno pochissimo..”
“ Poco è sufficiente” le risposi nel tentativo di rassicurarla e le aggiunsi qualche breve informazione riguardo al tipo di lavoro che avremmo svolto insieme avvalendoci dell’aiuto del mondo immaginario al quale si può accedere e non necessariamente dai sogni.
“ Non credo che il mio blocco alla gamba si possa risolvere con un immagine, ma se lei è convinta…comunque non mi sdraio ”mi replicò non nascondendo la diffidenza ed il suo bisogno di mantenere un contatto visivo : il suo bisogno di controllo.
Negli ultimi mesi anche il cibo le dava dei problemi.
Intollerante forse al latte e ai latticini, accusava fastidiosi arrossamenti della pelle, spesso intorno alle labbra e agli occhi, per i quali aveva consultato numerosi specialisti, ma con scarsi risultati non essendo mai stata rilevata alcuna patologia specifica.
Aveva cominciato , di conseguenza, ad eliminare un considerevole gruppo di alimenti dalla dieta, ritenuti da lei “ pericolosi “.
“ Non posso mangiarlo, mi fa male” ripeteva con insistenza; “ ho dovuto escludere i latticini…” ribadiva spesso e riproponeva, anche nella relazione alimentare , quelle problematiche relative alla diffidenza e al controllo, emerse nella relazione terapeutica.
Monica non poteva ingerire di tutto: lasciandosi nutrire da alcuni elementi ritenuti da lei pericolosi, venivano rimessi in gioco conflitti profondi che trovavano negli occhi e nelle labbra il punto di maggiore fastidio e il luogo della somatizzazione.
IL cibo ed il rapporto che instauriamo con esso , secondo numerosi esperti , ha un preciso riferimento alla relazione avuta con la figura materna durante la primissima infanzia.
Per semplificare, potremmo riassumere, che il nostro desiderio di nutrimento , negli anni ,rimarrà profondamente condizionato dal quanto e dal come sia stato appagato all’interno della relazione con l’oggetto primario ( ovvero con quella persona che aveva in carico la soddisfazione dei nostri bisogni ).
Il primo rapporto con la madre, se sufficientemente gratificante nell’appagamento dei bisogni del neonato, è la premessa per il costituirsi nel bambino di quella che Winnicot definisce “ fiducia di base “: ovvero quella potenziale capacità di aprirsi con sicurezza al mondo e alle relazioni.
Monica mi stava portando due problematiche : una razionalmente accettata della quale si permetteva di parlare , relativa al desiderio di separazione.
Attribuiva ogni responsabilità al marito e lo riteneva responsabile di un lento cambiamento che deludeva il suo bisogno di sentirsi amata e guardata,( gira la testa dall’altra parte…) , poi ripreso anche nell’esperienza con il precedente terapeuta (parlava con me e guardava altrove..) , vissuta come inappagante.
La problematica più latente, però, era relativa ad un conflitto profondo che non poteva essere affrontato e visto ( “non mi piace essere guardata “), almeno per ora, espresso nella paura di nutrirsi di ciò che le proponevo in terapia ( “non posso mangiarlo..) con il rischio potesse essere nocivo o potesse spingerla a confrontarsi con la causa di tale malessere ( “ mi fa male..”) obbligandola a lavorare sul dolore, ad affrontare quella stessa sofferenza che irritava gli occhi e la bocca .
Solo in seguito Monica si renderà conto di quanto l’irritazione ed la sensazione di pericolo dalla quale si stava difendendo e che eludeva attraverso meccanismi di evitamento e controllo ( “ ho dovuto escludere i latticini “) prendesse origine dalla relazione materna.
” Non avrei mai pensato di dovermi rivolgere a uno psicologo… non so da dove iniziare…” Nei suoi occhi aumentava il senso di smarrimento e una richiesta d’aiuto.
La invitai a prendere contatto con questa sensazione di malessere, con questa confusione nella quale si viveva, e , dopo aver indotto un leggero rilassamento che le permettesse di prendere un poco le distanze dalla realtà circostante, la esortai ad entrare in questa percezione , a porsi come uno spettatore esterno.
Avrebbe lasciato parlare il suo mondo interno , il suo sentire, avvalendosi di una diversa comunicazione: quella delle immagini , che si sarebbero prodotte spontanee e libere ai suoi occhi mentre lei si sarebbe lasciata andare al piacere di vivere un’esperienza diversa.
Monica cominciò a parlare lentamente e sottovoce.
“Mi sento disorientata…stanca…come dopo una lunga corsa…corro…. Corro come se stessi scappando, ma non so da cosa.. so solo che devo correre… mi fermo un attimo per prendere fiato, ma non mi ritrovo più.
Mi sono persa.
Come se se mi trovassi in un bosco: sì, è un bosco. .è notte.. un grande bosco sconosciuto, senza punti di riferimento.. solo il bagliore della luna…che altera il paesaggio e lo rende più minaccioso..
Non riconosco questo luogo né ciò che mi circonda.. percepisco solo che mi circonda un mondo estraneo , ed io sono estranea a lui, ma in questo momento mi sembra l’unico mondo che mi possa permettere e che in qualche modo mi possa proteggere dall’ostilità che mi minaccia e che mi porto dentro, dalla quale fuggo, dalla quale tento di separarmi…Forse è per questo che mi voglio separare … “
Riapre gli occhi e mi guarda come se avesse trovato la risposta che cercava .
”Forse per questo sono venuta da lei…anche se questo luogo mi fa paura e lo sento estraneo è l’unico che in questo momento ho trovato possibile, l’unico nel quale oggi possa riprendere fiato…spero che con il tempo mi appaia diverso, …ora ho solo bisogno di fermarmi e mi sono fermata qui …mi auguro che almeno lei possa indicarmi la strada.”
Si fermò per prendere fiato: la sua espressione nascondeva un velo di imbarazzo, forse per essersi lasciata vedere più in profondità e forse per un evidente stupore per l’esperienza vissuta.
Le sorrisi senza risponderle per non interrompere quel momento di abbandono, avendo avuto la sensazione volesse aggiungere qualcosa.
“ Siamo andati ben oltre il nostro tempo! Perché non mi ha avvisato?” sbottò guardando l’ora e cambiando improvvisamente tono di voce.
Si alzò e avviandosi verso l’uscita, prese le distanze da quella parte di sé bisognosa e lasciata emergere solo per qualche attimo prima di riportarmi ai miei doveri.
“ Ci vediamo la prossima settimana,! “ mi tese la mano e stringendola sorrise :“ mentre parlavo mi sono spaventata…per un attimo mi sono vista in un bosco simile a quello delle favole…mi ricordava quello di Biancaneve… un bosco che quando ero piccola mi spaventava a tal punto che ogni volta che vedevo quelle scene al cinema mi coprivo gli occhi… Biancaneve…pensi… non è strano? Mi viene in mente ora che era la favola preferita dalla mia mamma! “ Usciva di corsa lasciandosi alle spalle la mia espressione stupita.
Questa donna mi sorprendeva e mi affascinava nella duplicità che la caratterizzava.
Sentivo il bisogno di aiutarla e rassicurarla sul fatto che potesse ritrovarsi , che potesse fidarsi di me e lasciarsi andare; di come la capissi; di come tutto il mio interesse fosse rivolto a lei ed in quale modo le avrei insegnato la strada….
Ma quale strada?
Il cammino avrebbe dovuto trovarlo lei, riscoprendolo da sé; non possedevo certo percorsi preconfezionati sui quali invitarla a percorrere il resto della sua vita , eppure una parte di me aveva accolto il desiderio di essere utile e brava, il bisogno materno di contenerla e nutrirla.
Cominciai a riflettere e a soffermarmi su quanto stesse accadendo, anche aiutandomi con i riferimenti alla favola proposti dalla paziente stessa.
Stavo accettando di essere la sua “ casetta nel bosco” proponendomi , proprio come nella favola , come spazio protettivo ed accogliente, sicuro , rassicurante.
Non solo in questo modo non l’avrei certo aiutata ad uscire da quel bosco esistenziale nel quale si era persa, ma correvo il rischio di lasciarmi attrarre in quello stesso spazio.
Mentre cercavo di tradurre il mio sentire mi resi conto di come mi stessi facendo carico solo della sua parte persa, bisognosa e confusa senza considerare con la dovuta attenzione anche la mia parte “ tagliata fuori “ dalla relazione- bosco nel quale ci stavamo trovando, ovvero quella parte fatta di orari e tempi,(“ è finita l’ora …ci vediamo la settimana prossima…”) di cui si era impossessata e gestiva in modo totalmente autonomo.
In quello stesso momento mi resi conto che mi stavo perdendo e “con- fondendo” : mi stavo fondendo con le sue parti perse, in quel bosco che se pure inizialmente potesse sembrare spaventoso e ostile ( come appare anche nella sequenza in cui gli alberi assumono forme terrificanti), diveniva ben presto un ambiente protettivo verso un “ fuori” minaccioso con il quale comunque , in seguito, avrebbe dovuto confrontarsi.
Monica mi aveva permesso di entrare nel suo spazio, di incontrarla nelle sue parti perse , ma alle sue condizioni, in un certo modo rendendomi inoffensiva, proprio come i nani , limitando ( “ non pretenda che mi sdrai…”) e amputando ( “ non ricordo i sogni…”) la mia modalità di essere e di svolgere la professione.
Eppure quegli atteggiamenti oppositivi mi avevano mandato dei messaggi molto chiari, primo fra tutti l’evidente problematica con il cibo, attraverso la quale mi aveva avvisato di non essere disposta ad “ ingerire” ogni tipo di” proposta-alimento” che io ritenessi adeguata alla sua “dieta-terapia” .
Non a caso , in più, aveva eliminato proprio i latticini, che rappresentano per il neonato l’elemento cardine della dieta per il suo sviluppo , allo stesso modo di come ha escluso lettino e sogni che rappresentano per il paziente l’elemento cardine nell’evoluzione della relazione terapeutica ad orientamento analitico.
Bisognosa e confusa, fragile e persa in un luogo ostile, ma contemporaneamente sospettosa e diffidente, attenta ai propri bisogni, lucida e vigile: Monica era così .
Durante gli incontri successivi e per lungo tempo, la paziente mi parlò della infanzia e della sua famiglia che si caratterizzava dall’avere una sorella maggiore di qualche anno, con la quale affermava di aver sempre litigato; una madre verso la quale nutriva una rabbia profonda per una relazione da sempre inappagante ed ostile, ed un padre assente dall’adolescenza in poi col quale non esisteva comunicazione alcuna.
“ I miei genitori desideravano un figlio maschio a tal punto che avevano colorato la mia stanza di azzurro e sono stata vestita in azzurro per i primi tre mesi…” ricordava spesso con evidente fastidio.
Nel giorno della sua nascita,il padre rimase talmente amareggiato e deluso da rifiutarsi di andare a trovarla.
Fu la madre stessa a raccontarle che quando tornò a casa dall’ospedale, il padre trascorse i primi periodi ignorandola, evitando di prenderla in braccio o anche solo di guardarla con il pretesto di dedicarsi alla figlia maggiore.
Fu solo intorno al primo anno di età , quando iniziò a fare i primi passi , che il padre sembrò accorgersi della sua presenza cominciò a rivolgerle qualche sguardo di tenerezza: solo da quel momento cominciò a ritagliare qualche minuto libero per intrattenersi con la figlia.
Ma l’idillio continuò solo fino al termine delle elementari, poi , alle soglie della pre-adolescenza, Monica cominciò ad avvertire un cambiamento nell’atteggiamento paterno: le appariva sempre più infastidito nel vederla e sempre più distratto o assente nelle comunicazioni.
Anche durante i nostri incontri mi comunicava un’attenzione tutta concentrata sul mio modo di ascoltarla e sulla costante verifica dei miei atteggiamenti nei suoi confronti, non perdendo l’occasione di riprendermi qualora dal mio sguardo potesse immaginare che non fossi attenta a quanto stesse esprimendo.
Osservazioni come:“ è’ sicura di capirmi ?… Ho la sensazione stia pensando ad altro…” intervallavano quei colloqui nei quali i fatti, la storia della paziente, ovvero il suo universo di razionalità si muoveva indisturbato togliendo ogni spazio ed ogni accesso al suo mondo interno, pulsionale, rimosso.
Ogni tentativo di riportarla al presente e di metterla in contatto con il suo malessere, ogni sollecitazione a farsi carico del rancore che nutriva verso quanti “si girassero dall’altra parte “, veniva negato, riportandomi nel suo mondo fatto di passato, e di relazioni conflittuali e frustranti di cui lei si sentiva vittima.
La totale assenza di sogni , il respingere ogni proposta di ascolto di sé , del proprio corpo o delle proprie sensazioni, rendevano le sedute una somma di incontri rivolti ad accogliere il suo bisogno di attenzione e di rimostranze verso un’infanzia infelice ed una relazione genitoriale anaffettiva.
Era come se una parte di lei si rifiutasse di procedere.
Non bella , esile e magrolina , vestita , da bambina, con un abbigliamento spesso maschile ,in casa veniva soprannominata affettuosamente ” ragnetto”, e spinta a dedicarsi con impegno alle attività sportive e , più tardi, a quelle scolastiche.
La madre la ricordava come una donna molto bella, troppo presa da un lavoro che l’allontanava dalla famiglia per tutta la giornata e con un rapporto di coppia caratterizzato dal costante “ mi separerei se non avessi due figlie” .
Una figura fredda ed esigente, efficiente negli aspetti organizzativi, ma sorda alle richieste emotive della figlia, attenta comunque a trasmettere il profondo disagio che si portava dentro nel sentirsi intrappolata in quel ruolo di madre ,mai interamente accettato.
Forse per evitare di sentirsi responsabile di nuovi conflitti tra i genitori, forse nel tentativo di poterli conquistare affettivamente e sentirsi accettata e amata adeguandosi alle regole familiari e rispondendo alle esigenze di autonomia che le venivano richieste, forse per la paura di sentirsi rifiutata chiedendo, Monica aveva imparato a non ascoltare i propri bisogni, concentrata più sul fare che sul sentire.
Brava a scuola, lodevole negli sport, aveva imparato a non esporsi, a nascondere le parti femminili fragili e bisognose, mostrando di sé solo quella parte attiva ed efficiente che l’ambiente le richiedeva.
Nonostante gli sforzi, con il passare degli anni, la relazione con la madre si era deteriorata fin quasi ad annullarsi trasformandosi in un formale scambio di informazioni , e la convinzione di non essere stata accudita e amata, hanno alimentato in Monica una profonda rabbia , che pur trattenuta ed in parte negata, è divenuta causa primaria e nutrimento stesso della sua diffidenza nelle relazioni.
Anche in terapia nel privilegiare quella parte razionale e controllata si stava verificando ciò che era avvenuto nell’infanzia della paziente: la convinzione che anche l’analista , come la madre , non fosse in grado di nutrirla in modo soddisfacente , la spingeva ad attuare una forte resistenza controllando il proprio bisogno di lasciarsi andare.
L’unico modo in cui si permetteva di vivere la nostra relazione era quello di relazionarsi a me come a quel padre dal quale si era sentita considerata finchè non avesse “ girato la testa dall’altra parte”.
Con il susseguirsi degli incontri, Monica cominciò a prendere coscienza del proprio desiderio di attenzioni e questo lavoro su di sé le permise di iniziare un cammino di crescita psicologica che in un certo momento della sua vita si era bloccato.
Il padre aveva distolto lo sguardo da lei , aveva perso interesse per la figlia proprio nel momento in cui nel corpo e nell’ animo della ragazza stavano avvenendo i primi grandi cambiamenti: proprio nel momento di passaggio dall’infanzia alla vita adulta .
La figura paterna acquista particolare valore e significato , soprattutto nell’evoluzione della personalità della figlia femmina proprio in questa fase, in quanto permette alla ragazza lo spostamento sul maschile di quegli investimenti affettivi fino a poco tempo prima esclusivo privilegio della figura materna.
Già molti anni prima , il padre era stato chiamato ad offrire un contributo importante, quando , per permettere al bambino di sciogliere quella relazione simbiotica attivata con la figura materna, e permettergli di aprirsi al mondo, si era proposto come “ terzo”, come “ altro “ rispetto a quell’universo affettivo e relazionale che si esauriva nella coppia madre-figlio.
È proprio nel periodo adolescenziale che la giovane nello sviluppo e alla modificazione di un fisico, con il quale ha spesso difficoltà a riconoscersi, matura anche una coscienza sessuale, ovvero si trova a confrontarsi con la propria capacità seduttiva nelle relazioni con il mondo maschile.
Dal successo o dall’insuccesso che trarrà nel rapporto con l’altro sesso, dipenderà buona parte della maturazione interna di quella stima e valore di sé, premessa importante al proprio riconoscersi come donna.
Il ruolo paterno potrà aiutare questo passaggio quando e se: confermerà la ragazza nella sua trasformazione, assumendo un atteggiamento di paterna ammirazione, fornendole e garantendole , in questo modo, quel bagaglio di sicurezze che le permetteranno di accedere ad un maschile esterno alla sua famiglia; inoltre, facendo coppia con la moglie , provocherà nella figlia la gelosia verso la madre, che nasce dal sentirsi esclusa dalla coppia, e le permetterà di attivare una “ sana competizione “ con quel femminile dal quale si sente in qualche modo usurpata .
Il passo conclusivo sarà quello arrivare ad accettare e riconoscere la coppia genitoriale in quanto tale ed elaborando il senso di esclusione si riconoscerà in quel terzo elemento che pur essendo “ altro” dalla coppia stessa sarà capace di tenerla comunque viva dentro di sè.( risoluzione del complesso edipico)
Questo delicato passaggio, nel completare l’evoluzione psicologica, permette alla ragazza di “ ritornare alla madre “ e superandone il conflitto, attiva in lei una corretta identificazione.
Purtroppo nella vita di ciascuno i passaggi evolutivi non sono così lineari e comprensibili come riportati dai testi e quasi mai , all’età cronologica di un individuo corrisponde un’età psicologica adeguata…
Monica mi trasmetteva il rancore per sentirsi esclusa da un marito che immaginava potesse essere rivolto verso un’altra , ma non si era comunque spinta nella direzione della competizione e della sfida nel tentativo di attirare il marito a sè.
Aveva rifiutato di lottare e di credere nelle proprie capacità seduttive : aveva scelto una via di fuga: voleva separarsi.
Accettando di viversi come “ ragnetto”, si allontanava da quella relazione come se una parte di lei si rassegnasse ad avere relazioni “ a tempo “ che improvvisamente potessero finire.
Non permettendosi di credere nelle sue parti femminili belle e attraenti, che dal padre stesso non furono riconosciute, optava per una scelta di rabbia e rassegnazione: subiva l‘atteggiamento del marito come un tempo quello paterno.
Così come allora si era fermata di fronte a quell’improvvisa metamorfosi relazionale del padre ed aveva fatto proprio un vivere mascolino capace di garantirle attenzioni e affetto e di evitarle scontro con quella madre bella, permettendole di fermarsi in un mondo infantile e di rinunciare alla conquista dell’identità di donna , allo stesso modo oggi nel rivivere un cambiamento nella relazione con il marito, preferisce fermarsi ( blocco articolare) e rifugiarsi in un luogo dal quale il confronto e la competizione, con un’eventuale altra donna, possono essere evitati .
Infine opta per una scelta di passività ( Biancaneve ), nella speranza che sia qualcun altro ( terapeuta o il principe della favola) ad indicarle la strada ( richieste di spiegazione in terapia).
Questi contenuti venivano rielaborati durante le sedute e alle soglie dell’estate ebbi la sensazione che Monica cominciasse a muoversi cercando un percorso dentro di sé con maggiore fiducia tanto che accettava anche di socchiudere gli occhi e si lamentava spesso di quanto fossero scomode le sedie come se volesse provocare in me la proposta ad utilizzare il più comodo lettino.
Fu proprio in quel periodo che mi portò uno tra i sogni più significativi del suo percorso.“ “Ho fatto un sogno che desidererei elaborare con lei” esordì una mattina non ignorando la mia espressione compiaciuta.
“Ricordo solo poche scene, ma una grande ansia : sporgevo dal parapetto di casa. Le mie mani stavano tenendo i polsi di una bambina che stava scivolando di sotto nel tentativo di salvarle la vita. Più mi sforzavo di trattenerla più avevo la sensazione mi scivolasse dalle mani
Lei non collaborava, si muoveva a scatti ed io mi ritrovavo a tenerla ora per le mani ,ora per i piedi: le braccia della piccola aumentavano nel numero, ma mi sfuggivano dalle mani. Alla fine la lasciai cadere e la guardai senza particolare emozione, poi l’immagine cambiò e mi trovai in una stanza infestata dai ragni : dovevo ucciderli e ripulirla perché aspettavo qualcuno e non potevo farmi trovare in quello stato…”
Monica non poteva più “ lasciarsi trovare in quello stato “: sentiva l’esigenza di liberarsi delle sue parti “ ragnetto”: sentiva l’esigenza di lasciar morire quella sua parte piccola, tentacolare,( i ragni hanno tante zampe…) per ripulire e liberare uno spazio interno ( stanza) che le permettesse un incontro, un incontro possibile solo oltre il confine dell’infanzia.
Lasciar morire la sua parte piccola , liberarsi dai ragnetti , significava anche liberarsi dal bisogno di “ essere come mi vogliono” e accettare la sfida di “ essere come mi sento”.
L’assenza del padre e l’invidia per il potere della madre, l’avevano fatta sentire inadeguata in balìa di un madre che aveva su di lei , come la matrigna di Biancaneve, poteri di vita e di morte.
Agli occhi della madre , lei doveva rimanere bambina: la madre , solo lei era la donna in casa , l’unica che potesse essere “guardata” con desiderio e attenzione.
Rinunciare alla sua parte piccola la obbligava a recuperare quella femminilità , quella seduzione che l’avrebbe portata al necessario confronto- scontro con “ la matrigna “e i suoi “sortilegi”.
Monica , in seguito all’elaborazione del sogno, accettò di sdraiarsi sul lettino e accolse con piacere l’invito a vivere un approfondimento dell’immaginario comunicandomi che si sentiva finalmente pronta a perdere quel contatto visivo che le era stato prezioso e rassicurante per tenermi sotto controllo.
Era come se mi avesse finalmente liberato da quel ruolo di nanetto manipolato e controllato che aveva desiderato fossi, per investirmi della proiezione della matrigna che , come la madre arcaica bella e potente che si portava dentro, finalmente accettava di incontrare.
Per mesi il problema della seduzione era rimasto latente, ma pur sempre attivo.
Monica, in verità, si era posta di fronte al problema durante la nostra prima telefonata, nel momento in cui aveva affermato che la nostra relazione “ avrebbe potuto funzionare” solo se io non “ fossi stata giovanissima”.
In queste parole era nascosta la paura di confrontarsi con le parti giovani, le parti affascinanti e seduttive che si portava dentro ma che negava a se stessa e trasformava in “ ragnetto”; quelle stesse parti che potrebbero “ fare girare la testa” con il rischio, questa volta , che non sia “ dall’altra parte” ( anche nella favola c’è la trasformazione in strega dell’affascinante matrigna : unico modo possibile per avere accesso al bosco e poter incontrarla…)
Monica, come Biancaneve, cedeva alla seduzione dei miei poteri accettando di “mordere la proposta di immaginario” ( la mela stregata) e di lasciarsi andare allo svolgimento di quel tema simbolico che le avrebbe permesso di incontrare le sue parti rimosse, uniche in grado di risvegliarla e portarla ( come un principe ) fuori dal bosco.
In uno dei primi momenti di immaginario che Monica visse, emerse il desiderio di ricongiungersi con la sua parti viva, la sua parte in grado di correre e desiderosa di farlo.
“ Sono ancora nel mio bosco, ma questa volta è illuminato dalla luce del sole. E’ vivo: ci sono molti fiori colorati , ruscelli e laghetti , sembra più un giardino immenso.
Sto cercando qualcosa.
Non lontano da me vedo una fanciulla che gioca: mi fa cenno di seguirla e di unirmi a lei. Ho un attimo di esitazione, poi le vado incontro. Sembra mi voglia aiutare.
Lei si mette a correre e vuole che la insegua, ride e si diverte, sembra quasi una farfalla… corro , in un primo momento con un po’ di fatica, poi mi sembra di volare… corro veloce con una sensazione di libertà che non avevo mai provato. La raggiungo e le sfioro una mano…lei si trasforma in una fonte di acqua trasparente…
Bevo…mi bagno…e bevo nuovamente… con l’entusiasmo che cresce. Mi sento serena .. rinata…sto bene…”
Era assetata , ma non lo sapeva : desiderava ricongiungersi con quella parte che sa
correre , giocare, divertirsi; quella parte fonte di gratificazione dei suoi bisogni .
La sete ci trasmette un bisogno di acqua e l’acqua in quanto primario elemento di vita ci rimanda al materno.
Monica aveva così compiuto un percorso circolare : era tornata alla madre riconoscendola come elemento positivo di soddisfazione ed era andata oltre; si era lasciata dissetare, aveva assimilato quell’acqua e l’aveva fatta propria : si era permessa , in questo modo, di ricongiungersi con le sue parti materne, positive e gratificanti.
A seguito di questo incontro e a conferma di questo iniziale desiderio di fusione e riappropriazione delle sue parti interne ,Monica ebbe un’intensa attività onirica.
Il tema dominante dei suoi sogni era un conflitto tra il desiderio di poter essere sé stessa ed il non sentirsi in diritto.
Tra i tanti ne ho scelto uno che , a mio avviso , meglio rappresenta e riassume il conflitto .
“ Sono in un ambiente esterno affollatissimo. Vedo un abito esposto in vetrina che desidererei acquistare , ma sono certa di non avere denaro sufficiente. Metto le mani in tasca e trovo 36 lire nella tasca sinistra e 63 lire in quella di destra. Mi stupisco , non sono sicura siano miei. Un’ anziana donna mi si avvicina esortandomi ad acquistare ciò che desiderassi finchè fossi in tempo a farlo… Guardai il denaro e il prezzo dell’abito: 3663 lire. Misi insieme il denaro e lo acquistai “
Rimasi profondamente stupita dalla scelta di quel termine : “ misi insieme” anche se proprio quella era la sua esigenza primaria : quella di mettere insieme, di riunire.
L’altro elemento importante era quello relativo all’età della paziente.
Monica aveva ora 36 anni e 63 è il contrario di 36: è l’altra parte di sè , quella vecchia, quella che non fa paura, quella che rappresenta la trasformazione in “ ragnetto “ , ma è anche quella parte matura e inoffensiva nella quale ha dovuto travestire la figura del terapeuta per potersi permettere di far funzionare la relazione .
Sarà proprio quella anziana donna a spingerla a realizzare i suoi desideri ora “ che è ancora in tempo”.., ma l’abito ha un valore che è il risultato del ricongiungimento delle parti ( 36-63 ) , non dalla semplice somma ( 36 +63 ) delle stesse, dove buona parte della ricchezza che aveva a disposizione sarebbe stata persa.
Vivere i suoi 36 anni permettendosi di correre e di lasciarsi andare al gioco e alla seduzione ed in più , recuperare una nuova figura materna dentro di sé (il suo 63) non più punitiva e persecutoria, ma in grado di gratificare e rassicurare questa modalità di relazione.
Biancaneve si stava trasformando.
Superata la paura di confrontarsi nelle sue parti femminili, e desiderosa di indossare abiti nuovi, poteva lasciare quella casetta nel bosco ( che pur dandole sicurezza la isolava ..) e quelle relazioni fraterne coi nani che soddisfacevano unicamente il suo bisogno di protezione.
L’articolazione della gamba aveva smesso di darle fastidio e sebbene non avesse inserito ancora il latte nella sua dieta ( più per un problema legato alla digeribilità che all’intolleranza ), si nutriva tranquillamente di formaggi e latticini.
“Questa notte ho fatto un sogno stano” mi raccontò nell’ultimo periodo del nostro lavoro.
“ Mi trovavo a casa dei miei genitori : c’era una grande festa ed era il giorno del mio compleanno : 11 Giugno.
Tutti mi riempivano di regali ed ero al centro della festa… li guardavo felice , ma sapevo che sarebbe finito, anzi avevo la sensazione non dovessi essere in quel posto.
I miei genitori ballavano , altri mangiavano , c’era un clima di grande leggerezza.
In mano avevo una mappa che mi indicava un percorso che finiva con due parole “ sono qui “.Pensai ad un tesoro e lasciai la festa sollevata dal fatto che a tutti sembrò assolutamente normale.”
“ E’ stano… io compio gli anni a Settembre . Mi sono sposata a Luglio..l’11 Giugno non mi rappresenta… “ ma non fini quella frase perché un dolore alla gola non le permise di proseguire.
Fu la prima volta che pianse e pianse con tutta la disperazione ed il piacere di sciogliere quel nodo di rabbia in lacrime.
Piangeva ricordando in giorno in cui il suo corpo le comunicava di essere diventato donna..
Piangeva ricordando lo spavento e il senso di smarrimento che le prese quando se ne accorse.
Piangeva rivivendo la vergogna e l’imbarazzo con i quali lo comunicò a sua madre e quella frase “ ora sei una donna e devi smetterla di comportarti da bambina ! “ che la raggelò.
“ Avevo solo 11 anni…”
Piangeva ricordando suo padre abbassare lo sguardo….piangeva ricordando che dal quel momento solo raramente riuscì ad incrociarlo di nuovo….piangeva e parlava…
Piangeva…
Monica lavorò molto su quella mappa, su quella strada che sentiva di dover seguire per recuperare la relazione con il marito.
Era un percorso che le indicava la possibilità di raggiungere una ricchezza: di impossessarsi di un tesoro: quel “ sono qui “ forse troppo vicino per attribuirgli valore.
L’ultima volta che la vidi indossava una gonna stretta all’altezza del ginocchio con scarpe con i tacchi alti ed una camicia morbida che contribuiva ad avvalorare le forme di quel corpo già ben proporzionato.
I capelli biondi sciolti, che sfioravano le spalle ed un leggero trucco, mettevano in risalto i grandi occhi azzurri regalandole un’espressione dolce e solare.
“Mio marito ed io partiamo per una vacanza.. sentiamo il bisogno di dedicare un po’ di tempo a noi , abbiamo desiderio di ritrovarci, di riscoprirci…” e aggiunse
“ E’ stata un’idea mia…per lui era sufficiente avermi ritrovata , ma per me era importante…desideravo fargli una sorpresa…stupirlo…e così ho organizzato tutto da sola e lui è rimasto piacevolmente colpito….” mi comunicò con profonda soddisfazione
“ E se dovesse ancora girarsi dall’altra parte ?” replicai in modo provocatorio
Monica mi guardò dritta negli occhi e con aria di sfida, sorrise ed alterando leggermente il tono della voce in modo da renderlo rauco e spaventoso replicò:“ userò un sortilegio o una mela incantata…farò lavorare la mia strega interna…e trasformerò la vita in favola!” Poi mi salutò ed usci dallo studio con la solita fretta, ma questa volta per non tradire un profonda commozione che le stava velando gli occhi.
Mi volsi verso la finestra, l’azzurro cielo di quel pomeriggio primaverile rendeva bella anche Milano.
Il sole , entrando dalla finestra , riscaldava lo studio ed illuminava il foglio che Monica mi aveva lasciato in dono.
Raffigurava un disegno fatto da lei durante in periodo delle elementari : Biancaneve e i sette nani.
Sopra la figura di Biancaneve una scritta in penna aggiunta da poco dove si leggeva: “ io sono qui”.
*Gran parte di queste citazioni sono tratte da :
J.Canfield,M.V. Hansen, “Brodo caldo per l’anima. Storie che scaldano il cuore e confortano lo spirito” Vol 1 e Vol. 2 Armenia, Milano, 1997,2001